Non è strano aver creato qualcosa che ti odia?
Con
Ex Machina, la prima pellicola diretta da Alex Garland, torna sugli schermi il sogno – o l’incubo? Sta a voi deciderne la connotazione - della costruzione dell’Intelligenza
Artificiale e questa volta quello che ne scaturisce è una sorta di libro della Genesi dei robot che, attraverso la vicenda dell’emancipazione di Ava dal suo stesso
creatore, ci riporta indietro alla nostra storia biblica, restituendoci intatto il seme di quel peccato originale che, nel film di Garland, l’uomo condivide con la sua propria
creazione.
Motore della narrazione è il continuo parallelismo tra uomo e macchina, che spazia dalla spietata lotta per la sopravvivenza alla sete insaziabile di conoscenza, in una irrefrenabile corsa verso
l’esperienza conscia, verso la libertà di vedere con i propri occhi il mondo al di fuori di quel Paradiso Terrestre progettato unicamente per noi, dove, tra tanta perfezione, regna la
più tetra solitudine.
Chi
gioca a fare Dio è Nathan, geniale ideatore di Bluebook, il motore di ricerca più utilizzato al mondo. La mente della sua creatura Ava funziona davvero come un motore
di ricerca, è sì dinamica, capace di adattarsi alle caratteristiche dell’interlocutore e creare connessioni come
sinapsi tra le idee-ricerche, ma anche statica, capace di immagazzinare un personale bagaglio di memorie cui attingere; le espressioni del suo volto sono del tutto umane, ricavate attraverso
un’infinità di microespressioni acquisite dalle fotocamere di tutti gli smartphones esistenti. Ava è capace – o almeno così sembra - di provare emozioni, ma cosa più importante, è capace
di provocarle.
Nathan ha scelto il giovane ed ingenuo Caleb per eseguire il test di Turing: se Caleb riuscirà a percepire Ava come persona e non come computer,
allora Ava è davvero un’A.I.; quello che né Caleb né Nathan sospettano minimamente durante l’esperimento, intenti l’uno a seguire il proprio gioco
sentimentale, l’altro a fare i conti con il peccato di hybris che lo fa sedere al posto di Dio, è di essere parte di un disegno molto più grande, al di là di qualsiasi possibilità di
controllo.
Nel film viene esplicitamente citato l’esperimento mentale di Jackson sull’esperienza conscia: supponiamo che una neuroscienziata di nome Mary, che sa tutto su come il cervello
processa i colori, viva isolata in una stanza bianca e nera. Ciò significa che Mary sa ogni cosa sui processi biochimici e fisici deputati alla visione dei colori, ma non ha alcuna
coscienza della sensazione che provoca la visione degli stessi. Ava si trova esattamente nella stessa posizione di Mary, ovvero la sua conoscenza del mondo è incompleta perché
mancante della componente conscia di essa, che deriva, fondamentalmente, dall’esperienza diretta della vita. È come dire che il suo attaccamento alla vita è reale, perché fondato sulla componente
istintuale del suo cervello, derivante sempre e comunque dal motore di ricerca e quindi, in ultima istanza, dall’istintività degli esseri umani che utilizzano quel motore, ma è privo di senso,
perché scevro dei legami affettivi che l’esperienza di vita comporta. E forse Ava davvero è capace di sentire che dietro quelle innumerevoli connessioni sinaptiche, oltre quegli
algoritmi numerici che decodificano il pensiero e l’azione dei robot e degli uomini, c’è un universo infinito di sensazioni per il quale vale la pena combattere fino alla fine.
Non è certo la prima volta che il cinema ci pone di fronte ad una macchina che, per rispondere all’istinto di conservazione, è disposta a sfidare il suo creatore. Se torniamo indietro nel tempo
di circa 47 anni, l’elaboratore HAL 9000 del kolossal 2001: Odissea nello spazio aveva già dato prova della sua capacità di sfuggire alla programmazione attraverso il libero
arbitrio, cosa che lo porta ad eliminare la quasi totalità dell’equipaggio della navicella spaziale in risposta alla minaccia di essere scollegato per un’anomalia di sistema. In Ex
machina c’è però un elemento aggiuntivo ancor più influente del puro e semplice libero arbitrio: Ava non è solo un computer, ma ha il corpo di una donna, cosa che amplifica
esponenzialmente l’inganno. E’ bella, ha sensualità ed una vera sessualità, ha piena consapevolezza di queste armi e di come usarle per ottenere ciò che vuole.
E ciò che Ava vuole, dopotutto, è evolversi. È stata programmata per somigliare ad un’umana, le è stata data la capacità di operare delle scelte, le è stata data una volontà, ed ora lei
vuole diventare umana. Proprio come l’OS Samantha nel film Her di Spike Jonze, ora Ava ha bisogno di avere nuove esperienze per completare il suo immenso
bagaglio conoscitivo, perché animata dalla curiositas, da quello stesso impulso che spinge l’uomo verso le sue scoperte più grandi. Chi avrà il diritto di sentirsi ancora padrone di una
creatura talmente perfetta? Chi avrà la facoltà di decidere quando e come toglierle la vita?
Dall’uomo alla macchina, dalla macchina di nuovo all’uomo. Forse migliore, forse immutato, se i sentimenti sono destinati a caratterizzarne in eterno il modo di agire. Perché un giorno non molto lontano, le emozioni di cui tanto andiamo fieri potrebbero non essere più una nostra prerogativa. Meglio abituarsi da subito a questa nuova umanità.
A cura di Cristina Seguiti